La cantina dei tavoloni

mario l\'enologo 6' di lettura 10/08/2009 - Quando gli amministratori della Regione Marche e della Provincia di Macerata celebrarono il decennale del terremoto, con convegni fitti di relazioni noiose stracolme di numeri e percentuali da record di difficile verifica e con la presentazione di pubblicazioni tanto patinate quanto retoriche, c\'era ancora gente che viveva nelle casette di legno e forse nella fretta nessuno si era ricordato delle morti strettamente connesse alla ricostruzione, come il suicidio di Mario Seri.

Ciò nonostante la ricostruzione ha funzionato a corrente alternata fin dall’inizio. Infatti è stato subito instaurato un eccellente rapporto di collaborazione tra utenti, tecnici ed amministratori, grazie all’immediato decentramento degli uffici regionali e grazie al fatto che le varie fasi di programmazione, progettazione e controllo non sono passate attraverso la burocratica Provincia.


E’ stata inoltre una bella esperienza tecnico amministrativa e di crescita per tutti quei ragazzi che hanno lavorato con entusiasmo al Centro operativo misto di Muccia. Innovativo e molto costruttivo anche l’aspetto legislativo sulla compendiosa legge n. 61/98, continuamente integrata e aggiornata con apposite Delibere di Giunta. Comunque sembra che la Regione Marche, a differenza dell’Umbria, non abbia colto appieno l’occasione per riqualificare il territorio con infrastrutture e architetture moderne, come la scuola di Casenuove.


Inoltre non sempre la ricostruzione è stata rapida, sicura e di qualità, com’era nello spirito della legge e negli indirizzi politici, tanto che alcuni restauri forse nella fretta sono risultati distruttivi e i programmi di recupero sono stati troppo complicati e in alcuni casi inutili.


Nello stesso tempo diverse priorità di finanziamento hanno finito per privilegiare esclusivamente gli interventi sugli edifici di proprietà pubblica e su quelli ecclesiastici. Contributi che hanno finito per svantaggiare i cosiddetti anticipatari e soprattutto i proprietari delle seconde case, cosa questa che ha rappresentato un danno irreparabile sulle consuetudini dei figli dei nostri emigranti. Tuttavia, nonostante l’eccessivo allargamento dell’epicentro alle Marche intere voluto da tutti e le complicate procedure d’intervento, visti i mezzi e l’enorme quantità di risorse impiegate per il recupero di un patrimonio edilizio danneggiato più dall’incuria che dal sisma, non si può che esprimere un giudizio complessivo sicuramente positivo.


Tutto bene tranne per quei proprietari di edifici danneggiati e resi inagibili dal sisma, che per imperizia o negligenza non hanno presentato la domanda nei termini e pertanto rimpiangono il contributo perduto. Tutti questi proprietari si possono consolare pensando che le calamità naturali, pur colpendo alla cieca finiscono sempre per favorire gli astuti e svantaggiare gli ingenui. Ma in certi casi anche i proprietari furbi hanno finito per subire più danni dalla ricostruzione che dal sisma. Infatti l’eccessiva cementificazione ha spesso danneggiato le cantine delle case coloniche dove da sempre venivano conservati cibi e vini. Basta fare un giro nelle frazioni sperdute delle nostre montagne per rendersi conto dello stato d’abbandono in cui sono stati lasciati gli abitanti superstiti.


Ciò accade anche nelle campagne di civilissime città quali San Severino, dove c’è ancora gente attaccata alla terra e che vive con il duro lavoro dei campi. Siamo a Serralta, presso una delle ultime famiglie patriarcali che c’è dato conoscere. Gente buona e ospitale che ogni anno quando si miete deve tribolare per il passaggio della mietitrebbia, costretta a fare un lungo e costoso giro per via di un maledetto ponte di appena tre metri di carreggiata, costruito nel dopoguerra con tavoloni di legno ormai ammalorati, un ponte probabilmente danneggiato dal sisma. Il passo per arrivare alla tenuta dei Tavoloni detti Perugini si apre sulla destra della strada che porta a Cingoli, dopo il ponte dei Canti e il bivio per Elcito.


La strada bianca, dopo una breve salita, si incassa (gabba) in maniera suggestiva tra ripidi tornanti fino ad arrivare a quel piccolo e fatiscente ponte di legno che collega le due sponde scavate dal fosso Grande, un affluente del torrente Cesolo. Dopo la discesa ardita c’è come sempre la risalita e il paesaggio si apre e si trasforma in un piccolo altipiano, una piccola radura per un buon ritiro. In alto il Castello di Serralta, a destra la vigna, le pecore, a sinistra la stalla coi buoi di razza marchigiana, il fienile, le cataste di legna e, un po’ più in alto e un po’ più in là, la casa colonica d’aggregazione della famiglia Tavoloni: Pietro dirige l’azienda agricola coadiuvato dai fratelli Bruno e Mario, mentre i figli Fabio e Silvia lavorano in città.


La cosa che più colpisce di questa casa in pietra è la cantina nascosta da una piccola porta rattoppata con tavolacci sistemati come un puzzle. Basta fare un gradino per percepire l’effetto grotta e vedere cinque buffe botti in cemento, una botte di legno da due quintali per il vino cotto, una botte di legno da un quintale, due botti di legno da mezzo quintale, un tino dove pestare dieci quintali d’uva, un torchio per le vinacce, varie bigonce in legno e un avveniristico recipiente in acciaio per il vino bianco acquistato recentemente da Mario l’enologo. A questo campionario di contenitori per la conservazione del vino, vanno aggiunti un piccolo ripostiglio per il formaggio e tre armadietti con retina contro le mosche per prosciutti e salami. Insomma una pace da santi, una cantina sullo scoglio scampata alla ricostruzione dove non manca nulla. C’è anche un tavolino per le merende e rudimentali porta bicchieri.


Questa è una visita che non ha prezzo anche perché al ritorno, quando fa notte può capitare di fare incontri che mozzano il fiato. Non solo visioni di civette, volatile che si vuole appaia a chi ha alzato un po’ troppo il gomito, bensì incontri ravvicinati del terzo tipo con istrici maestosi e guardinghi che attraversano la strada illuminata dalla luna, per andare dal campo di Zampa a quello di Zizzi. I proprietari di quei centocinquanta ettari coltivati aldilà del ponte, visto che la strada è di competenza comunale, hanno più volte manifestato alle Amministrazioni comunali che si sono succedute il disagio e la necessità di allargare il ponte per il passaggio dei mezzi agricoli. Insomma questa piccola infrastruttura viaria va rifatta e allargata perché, essendo stata concepita per i birocci trainati dai buoi, non può certo resistere al passaggio dei camion carichi di quintali di grano.


   

da Gabor Bonifazi
architetto






Questo è un comunicato stampa pubblicato il 10-08-2009 alle 01:32 sul giornale del 10 agosto 2009 - 1747 letture

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